Restano in piedi i reati tributari, come il riciclaggio e l’auto-riciclaggio. Ma per Giovanni Attanasio l’accusa principale, quella su cui la Procura aveva incardinato l’intera inchiesta, è stata già stralciata dai giudici del Riesame: il leader della Lavoro.doc non è un camorrista.
Non c’è l’aggravante del metodo mafioso né può essergli ascritto il reato associativo del 416 bis. Insomma, Attanasio non sarebbe il referente del clan Pecoraro-Renna o dei relativi reggenti, tra cui Enrico Bisogni. Le accuse mossegli dai pentiti Raffaele Del Pizzo e Sabino De Maio non sono sufficientemente credibili.
E così per Attanasio le indagini si chiudono, al momento, con le accuse che riguardano una maxievasione per almeno 70 milioni di euro, messa in piedi attraverso la rete di almeno 30 imprese a lui riconducibili. Società intestate spesso a persone di comodo, prestanome e gestite di fatto da suoi referenti, con il pallino del gioco saldamente nelle mani del braccio destro di Attanasio, ovvero Sergio La Rocca.
La Guardia di Finanza, poi, oltre ai reati tributari ha messo a fuoco almeno 150 posizioni lavorative sospette. Riguardano tutte persone in odore di malavita, già gravate da precedenti e fatte assumere- nella maggioranza dei casi- proprio da Enrico Bisogni. Di lui Attanasio pare si fidasse molto, avendolo messo a capo della Sva (società vigilanza appalti) con il compito di distribuire materiale antinfortunistico.
Di fatto, Bisogni si occupava di tenere ordine tra i lavoratori della galassia societaria del cosiddetto gruppo Attanasio. Inoltre, pare godesse di un certo margine di manovra sulle assunzioni. Tra queste, anche quelle di persone sospette che utilizzavano i contratti per ottenere benefici tramite false attestazioni all’autorità giudiziaria.